venerdì 5 dicembre 2008

Controllare le passioni

Quanti sport e quanta passione. Per questo mi piace questo blog e il lavoro che faccio che consiste nell'analisi filosofica della realtà sportiva. Un lettore mi chiede se l'emotività può interagire nel successo sportivo e nel controllo di . Se a parità di condizioni fisiche e ambientali la mente può essere influenzata dalla passioni. Certo! Rispondo io. E lo sport aiuta a controllare emozioni e passione. Addirittura nelle brevi parole lette, si intuisce un alcunché di fondamentale nello sport come nella vita: le passioni possono essere positive o negative come ci insegnava il caro Spinoza, che la sapeva lunga, e sarebbe stato un ottimo sportivo: una macchina per fare sport e rendere al meglio. Le passioni sono energia che influenza il nostro corpo e la nostra mente e quindi la nostra resa. le passioni positive come la gioia inducono ad avere energia in eccesso che si può trasformare in adrenalina. Le passioni negative come la tristezza riducono il nostro benessere psico-fisico e impediscono una buona resa. Ma tutto ciò può essere vero fino a un certo punto e c'è sempre l'eccezione: una passione negativa come la rabbia può indurre a reagire positivamente: per es. in una gara dove la stessa può permettere di aumentare lo sforzo senza dare peso alla fatica. Oppure, come dice il nostro lettore, far tremare l'asta mentre si gioca a biliardo. Il biliardo, si sa, è uno sport di testa, molto cerebrale. Ma tutti gli sport lo sono. Io credo fermamente nella simbiosi di mente e corpo e credo che si influenzino reciprocamente. Il lettore mi chiedeva un rimedio, un metodo per concentrarsi in situazioni in cui l'emotività prende il sopravvento. L'unico rimedio efficace che io conosco è la consapevolezza: conoscere e i propri limiti e imparare a gestirli attraverso l'esercizio. Anche nello sport la virtù è un habitus, più la eserciti , più migliora.

(Grazie a Remo Bassi e al gioco del biliardo per l'ottimo spunto).

sabato 11 ottobre 2008

Stile sportivo, stile di vita

Corro, mi stanco e sono felice. Faccio sci nautico e mi vien da fare la gincana in autostrada (non lo faccio, si intende). Lo sport influenza la mia vita positivamente. Ho constatato di stare meglio, di conoscere meglio il mio corpo e i miei limiti e di sapermi gestire meglio in situazioni stressanti con meno ansia. Il mio fisico e la mia mente si sono abituate alla fatica. Lo stress non mi spaventa, la stanchezza nemmeno. Lo sport mi eccita, mi dà la carica e il brivido del benessere. Quanto avevano ragione i saggi greci che avevano capito tutto molto prima di me: "mens sana in corpore sano". E io che mi ostinavo a non magiare, che pensavo che per stare bene bastasse quello e invece stavo peggio. L'eccesso non porta mai benessere e lo sport insegna: l'equilibrio si raggiunge e diventa un habitus di cui non puoi fare a meno per essere felice come diceva il nostro caro vecchio Aristotele!

giovedì 21 agosto 2008

Un tifoso d'altri tempi

(il gusto retrò del bel calcio)

“Una volta il calcio aveva dalla sua personaggi che hanno fatto dell'etica un vero e proprio baluardo...penso ai vari Scirea, Facchetti...Uomini in campo e fuori...con doti umane oltre che tecniche. Scirea mai un'espulsione nella sua carriera. Pilastro nella Juve del Trap, è diventato l'icona del calcio anni 70...un calcio poetico, spensierato, un hobby, non una professione (ed infatti il calciatore era un secondo mestiere)...Facchetti, esordiente in serie A giovanissimo, che con l'Inter di Herrera vince tutto...in campo sempre gentile, educato pronto a dare la mano all'avversario...insomma personaggi diventati icone di un'epoca...perché avevano fatto un semplice ragionamento: “SPORT=ETICA , ETICA=RISPETTO DI ME STESSO E DEGLI ALTRI”. Queste sono le parole di Moris Sonzogni, tifoso ultra dell’Atalanta. Ultra, avete letto bene. Sfatiamo il mito dell’ultra bruto e ignorante e comprendiamo che, come sempre, non bisogna fare di ogni erba un fascio e che esistono tifosi intelligenti e con principi etici non solo consolidati ma di altri tempi, che vedono addirittura nel calcio la poesia. Cuore nobile, mi direte voi; eccezione, forse. Ma ciò dimostra che lo sport è bello se assume e mantiene i connotati etici per cui è nato: il gioco, il divertimento e il rispetto di sé e dell’altro. Temi che enuncio da sempre e ritrovo sempre più spesso. A ricordare che lo sport non è solo il mercato che spesso si vuol far vedere.

domenica 15 giugno 2008

Il ruolo dell'umile

L’umile abbassa lo sguardo, sostiene l’avversario solo in campo, stringe la mano con cordialità alla fine della gara. La grinta la riserva al campo di gioco, il carattere è concentrato sull’obiettivo, non su stesso. L’umile ha una visione di sé forse troppo modesta. Abbiamo più volte scritto che l’outsider è un grande egocentrico. Ma umile che doti ha? L’amore per quello che fa. Viene donato allo sport, alla vita in campo, alla dedizione, all’allenamento. L’umile è il virtuoso. L’habitus della virtù gli calza a pennello. Non fatica a vedersi sottomettesso alle regole del gioco. Le conosce e le rispetta. Se le cambia? Era giusto così. Il cambio è uscito sul campo e viene dalla correttezza del gesto atletico, magari più potente, magari meglio calibrato. Mai scorretto. L’umile ha rispetto all’outsider una carta vincente paradossale: Si accontenta. Quindi digerisce meglio le sconfitte e sa farne tesoro per i momenti futuri. Quando vince? Dedica la vittoria a chi gli sta intorno e questo lo rende grande, più di qualsiasi campione del mondo.

(P.S. Ringrazio Gianluca Pantano, tennista lombardo, per avermi concesso un'intervista da cui è tratto questo articolo.)

lunedì 2 giugno 2008

Vi aspetto

presenterò il mio libro e l'attività di sci nautico nelle scuole superiori svoltasi durante l'anno scolastico 2007-2008 in collaborazione con la water ski di San gervasio B.no e ci sarà anche una simulazione di consulenza filosofica applicata allo sport.
Cliccate qui per vedere dove
il 5 luglio alle ore 19.00

domenica 25 maggio 2008

un giudice soggettivo

Un giudice soggettivo

Ogni giudice lo è in quanto essere umano e persona. Ognuno ha sopra di se la legge sovrana che però interpreta e applica. Ognuno ha una coscienza a cui risponde. Di certo ha un compito impopolare e difficile. In una contemporaneità dove le regole stanno strette, anzi strettissime, dove il gioco è sfogo e divertimento, proporsi come un sostenitore delle stesse e un suo difensore per definizione non rende il compito facile ma necessario. Il giudice di gara fa parte del gioco, ne è il simbolo della tutela delle regole e quindi della sua esecuzione, della sua stessa esistenza. Non esiste gioco senza regole e non ci sono regole senza gioco. L’obiettività è la sua bandiera e l’integrità il suo baluardo.
Il giudice di gara rappresenta l’imparzialità obiettiva possibile per un soggetto. E’ una contraddizione in termini: il soggetto tutela e propone un che di oggettivo ma come sempre lo interpreta e quindi lo fa soggettivamente. Ma l’obiettività deve essere garantita. Allora si chiama in campo la virtu: l’habitus a resistere alla tentazione di preferire questo e quello, di punire al di là del ruolo per idiosincrasia. Ci verrebbe da dire che per essere buoni arbitri bisognerebbe non essere umani, macchine. Infatti la moviola è una macchina, le riprese lo sono ma il giudizio rimane personale, umano. Ognuno giudica se stesso e i propri simili. Una macchina propone un giudizio standardizzato: l’uomo è complesso e anche nel gioco ha bisogno di giudici flessibili che sappiano applicare e interpretare oltre la mera probabilità statistica che la macchina calcola. La soggettività umana, per quanto paradossale possa essere, garantisce la miglior obiettività di giudizio perché conosce e comprende i propri simili. La macchina non ha queste doti. Nel gioco ci sono giocatori e l’arbitro fa parte del gioco, gioca con gli altri. Solo che il suo ruolo è super partes.
Ogni volta che ci si affida ad un giudice unico ci si deve fidare di lui e nell’arbitro è riposta la fiducia di tutti: atleti e pubblico. La fiducia nell’arbitro è la fiducia nell’uomo, nelle sue competenze, nella sua lucidità, nella sua corretta posizione in campo, nel suo giudizio sportivo. Che significa giudizio sportivo? E’ un giudizio che si basa sul rispetto delle regole (vero elemento obiettivo della gara) e nella loro tutela e applicazione da parte del direttore di gara. Quale è il mezzo attraverso cui l’arbitro si erge a giudice e applica le regole sovrane? Il giudizio inappellabile che, dopo essere stato pronunciato, non è revocabile. Per fortuna sennò le gare non avrebbero mai fine e l’emozione della sconfitta e della vittoria andrebbero perse perché vivono anche del giudizio arbitrale. Il punto di vista dell’arbitro è come quello del filosofo, a 360 gradi, il più possibile onnicomprensivo ma anche consapevole della propria fallibilità che costringe il giudice all’attenzione e alla correttezza in campo: so di poter fallire e cercherò di non farlo nel migliore dei modi possibili.

(n.d.m. ringrazio il mio amico Marco Grena, arbitro, per le opinioni e notizie che hanno contribuito a creare questo articolo)

domenica 18 maggio 2008

La bellezza passa dallo sport

L’atleta classico (mi riferisco all’atleta-modello dell’Antica Grecia) aveva un culto perfetto del proprio corpo, preparato con la costanza e finalizzato alla battaglia o ai giochi olimpici e si diceva bello. Dove bello era anche buono nel senso di virtuoso, capace di agire per il meglio in determinate circostanze, valutate con la ragione e realizzate nella pratica con il corpo. Bello e buono in greco (agathon) sono sempre insieme, non si separano; sono ciò che per noi è la mente dal corpo: in dialogo costante, in simbiosi. E allora ciò che appare belle, è bello, di una bellezza costruita, scolpita, si può dire con la costanza, la fatica e il sudore, con l’allenamento. Esibire un corpo bello per lo sportivo è un traguardo, un valore aggiunto, un valore in . Un traguardo perché il corpo bello è il corpo armonioso, la sua armonia è frutto di una preparazione equilibrata, costruita attraverso il lavoro della mente sul corpo: la mente esorta il corpo alla fatica, all’equilibrio di una dieta sana e di un allenamento costante ma non forzato, non eccessivo. L’allenamento eccessivo porta ad un corpo sformato, sproporzionato, troppo grosso. L’assenza di armonia indica bruttezza. Il risultato del lavoro sul corpo gratifica la mente con la sua bellezza. Io mi vedo bello e mi sento bello: non solo esteriormente ma interiormente in quanto mi sento sano. Un corpo bello è un corpo sano: buono. C’è una differenza fra la magrezza eccessiva (che patologicamente diviene anoressia) e la magrezza costruita attraverso lo sport. La prima è brutta a vedersi in quanto spigolosa e sproporzionata, la seconda, quando il risultato è buono o addirittura perfetto, è bella a vedersi in quanto armoniosa e ben strutturata. Ciò dà alla mente la gioia che è la letizia del proprio sforzo, dell’aver raggiunto la perfezione della propria esteriorità e dona il piacere del godimento della visione del . Il corpo bello aggiunge valore all’atleta che diventa la migliore immagine di sé, la miglior propaganda della propria attività, della propria virtù. Il corpo bello a vedersi è piacevole, tutti ne godono: dall’atleta al pubblico che lo apprezza in campo come fuori, sulle copertine di una rivista. Ecco perché sempre più sportivi sono chiamati dal mondo della moda a presentare un modello di bellezza che è anche buona (sana e virtuosa, ricordiamo l’agathon). Essa è un messaggio positivo educante: Fate sport e sarete belli e buoni, gloriosi e virtuosi. Il corpo bello dello sportivo diventa modello educativo, è presentazione del proprio sudore finalizzato al risultato che si manifesta anche nel bell’effetto che fa. La bellezza è un valore in sé. Il bello è un valore universale di per sé. Da tutti accettato e da tutti apprezzato, goduto; chi possiede la bellezza gode di questo valore. Se la bellezza di un corpo atletico è poi il risultato di un lavoro, di una fatica, diventa virtù, diventa abitudine ad esibirla e quindi a costruirla e a guardarla da parte di chi ne gode, che ne apprezza anche il valore sotteso.

lunedì 28 aprile 2008

L'atleta e la sua grupie

L’atleta e la sua grupie
Nello sport troviamo un modello del passato che si rinnova

Ho già parlato altrove del tifo. Come al solito mi concentro sul rapporto che sussiste fra atleta e il suo mondo e sulla relazione che si crea fra l’atleta e chi dialoga e interagisce con lui. Ho notato che soprattutto nel mondo del calcio e in maniera meno evidente in altri sport come il ciclismo, l’automobilismo e il motociclismo l’atleta è seguito da un tifo particolare, quello della grupie.
Rubo il termine alla musica per definire una fan che entra nella vita privata del suo eroe e stabilisce con lui un dialogo intimo che va al di là della sua presenza sul campo di gara e del suo ruolo di incitatrice. Parlo prevalentemente al femminile perché è un fenomeno, quello della grupie sportiva, che secondo me si manifesta solo in presenza di atleti maschi. La grupie è una donna ed assume alcuni stereotipi femminili duri a morire: è il bell’oggetto accanto all’idolo. Non me ne vogliano le tifose che leggeranno perché non mi riferisco a tutte le donne ma solo ad una tipologia e perché se osserveranno il mondo che frequenta, si renderanno conto che questo che descrivo è un fenomeno in evoluzione e presente nei luoghi sportivi. In evoluzione perché la grupie è spesso ora come allora una testa pensante, non solo un oggetto e usa sé come oggetto piuttosto perciò la grupie non solo si organizza ma segue e programma la propria attività di fan divenendo essa stessa fenomeno di moda accanto a chi è oggetto di comunicazione: l’atleta. In evoluzione perché la grupie da spettatrice passiva assume spesso il ruolo di consulente e compagna dell’atleta a lei vicino.
Perché si verifica il fenomeno grupie-atleta? Quali connotati evidenzia tale relazione? Proviamo a rifletterci. Innanzi tutto la grupie e non le grupie: una sola persona segue accanitamente il suo eroe e spesso condivide con lui vita pubblica e privata. Può essere una fan che poi approfondisce la relazione al di là del campo di gara o una persona conosciuta privatamente che diviene la prima fan dell’atleta, colei che ne condivide gioie e dolori in campo e fuori. Poterebbe essere semplicemente la sua compagna di vita e spesso ciò accade. Ma la grupie nasce con altre esigenze che accompagnano sia lei che colui che gode delle sue attenzioni. La grupie vede nell’atleta l’oggetto del desiderio; l’eroe che vince in battaglia e la fa sognare. La componente erotica di questo rapporto è molto forte e sicuramente molto piacevole per entrambi: lei si identifica nell’eroe vincente, lui ha il suo trofeo da esibire. La grupie diviene essa stessa oggetto del desiderio dell’atleta che con lei stabilisce un dialogo prevalentemente corporeo; esso si basa sugli sguardi e le intese sul campo di gara e sul contatto fisico fuori dal campo. Ciò non esclude una relazione più stabile e meno carnale ma il tutto parte dal corpo. Il senso del possesso prevalentemente maschile viene sfogato dall’atleta grazie al possesso della grupie, essa incarna nello stesso tempo la donna oggetto, ideale maschile, la donna trofeo. D’altra parte la grupie sportiva ama il suo eroe, lo apprezza proprio perché modello vincente, anch’esso, se vogliamo, da esibire come trofeo e il gioco delle parti si inverte: tu sei il mio oggetto e io sono fiera e godo delle tue prestazioni che io non riesco a raggiungere non voglio raggiungere, le vivo attraverso il tuo gesto atletico che diviene eroico e quindi da mitizzare e esaltare. Tu godi della mi bella presenza e te ne vanti quasi io fossi una continuazione della vittoria che dal capo si porta fuori campo. Se la relazione fra i due si stabilizza e il dialogo si approfondisce il ruolo di grupie è terminato e lei diventa la donna del campione.

lunedì 14 aprile 2008

Moda e sport

Moda e sport. Complementari?
La moda e lo sport insieme da sempre, interinfluenzabili. Tesi da argomentare chiarendo il significato dei termini. Si può intendere il binomio moda e sport come l’uno il connotato dell’altro: lo sport va di moda, in diverse epoche con diverse modalità ma sempre. Ma non è in questo senso che qui vogliamo esplicitare la tesi iniziale. Quello che ho intenzione di fare è comprendere come i due ambiti, moda e sport intesi come settori sociali e di azione nonché di mercato, siano oggi entrati sempre più in relazione e denotino una particolare espressione del sé, quella dell’apparire. Vorrei evidenziare come l’ambiente sport si intreccia sempre più con l’ambiente moda in varie modalità di espressione. Lo sport è una moda e come ogni moda diviene un fenomeno sociale. La sua evoluzione è simile alla manifestazione di una tendenza. Emerge la tendenza in qualche luogo, viene praticata, viene conosciuta, viene pubblicizzata e poi diventa fenomeno di massa perdendo il connotato di tendenza e divenendo fenomeno sociale. Prendiamo il jogging, modalità di pratica sportiva tipica del mondo anglosassone per cause ambientali: grandi aree verdi e clima temperato. Il jogging era un fenomeno di nicchia, è diventato tendenza negli anni ottanta e ora è fenomeno sociale da cui si sono sviluppate diverse varianti: il running, lo step, l’walking. Tutto ciò ha creato interesse in vari strati della popolazione e nel mercato, tanto che nel settore abbigliamento si è sviluppata un’area tutta dedicata al fitness e in specifico al jogging e alle sue varianti. La moda si intreccia allo sport come accessorio indispensabile. Accessorio perché mettere una tuta o un calzoncino è la stessa cosa a livello pratico, indispensabile perché influenza la propria presentabilità sociale e la propria identificazione con il trendy e con l’in. Essere trendy ed essere in implicano altri connotati nel proprio esserci, nel proprio manifestarsi. Chi è trendy, è informato e ha disponibilità economiche o almeno lo fa credere. Chi è in non solo è trendy, ma lo è in maniera personalizzata, ha trasformato il trendy in stile personale. Vi faccio un esempio: Madonna è in, Victoria Beckham è trendy. La prima inventa e personalizza, la seconda si adegua. Questo è uno dei tanti modi in cui il binomio moda e sport si legano. Lo sport ha influenzato in maniera pregnante la moda tanto che tutta un’area del casual ha preso spunto dallo sport. Tessuti sempre più leggeri, tecnologici: non si stirano, si asciugano presto, lasciano respirare le pelle; queste esigenze, proprie degli sportivi, sono diventate d’uso comune e hanno fatto tendenza influenzando vari brand che hanno copiato tali idee e le hanno massificate. Oggi tendiamo a scegliere questo tipo di abbigliamento perché pratico e comodo ma anche perché bello. La bellezza nell’abbigliamento sportivo è una novità degli anni 90 2000 che tutti APPREZZANO anche gli stessi sportivi. In questo caso prima lo sport ha influenzato la MODA poi la moda ha influenzato lo sport. Lo sportivo è spesso trendy e si presenta tale sul campo di gara e fuori. Viene usato come testimonial di varie marche sportive e non, perché il suo esserci nel mondo è di moda e così il suo apparire rispecchia la moda. Essere di moda per prestazioni sportive crea il personaggio che diventa esso stesso fenomeno di moda.
Fino a qui abbiamo visto gli intrecci più comuni fra moda e sport che si sono manifestati a livello sociale negli ultimi anni. Ma perché ciò è avvenuto? Cosa ha provocato tale interscambiabilità? Qui adopero temi già trattati in alcuni articoli e brevi saggi pubblicati in rete che sono secondo me dei ritorni imprescindibili. Nel nostro tempo si è praticato un sempre più esigente e attento culto del corpo. Il corpo è la nostra vetrina e il nostro biglietto da visita. In una società dedita all’immagine e pregna di immagini come la nostra, il corpo è ciò che si manifesta per primo e che per primo viene osservato e apprezzato. Chi ha un bel corpo è socialmente accettato immediatamente, non deve dimostrare nulla, almeno all’inizio di qualsiasi rapporto e relazione. Poi saranno importanti altre doti: quali l’intelligenza nel porsi ma al momento dell’incontro ciò che viene guardato è il corpo. E ciò vale sia per la componente maschile che per quella femminile, si va verso l’oggettivazione della persona, nel momento dell’incontro, preludio del riconoscimento dell’altro, ci si presenta con il corpo e solo con quello. Si vive sempre di più e sempre con maggiori agii, ciò ha portato ad apprezzare in maniera forte il lato estetico del nostro esserci e quindi il corpo. Il corpo va curato, il corpo va abbellito. Ed ecco allora il binomio moda e sport: si cura il corpo con lo sport e lo si fa in bello stile. Lo stile è diventato un connotato del benessere sociale ed esistenziale. Se hai stile, stai bene con te stesso e con gli altri. Ciò significa che hai acquisito un certo status sociale ma anche che stai bene con te stesso e sai gestire le relazioni. Lo stile è sinonimo di sicurezza del sé e della gestione corretta della relazione con l’altro. Il culto del corpo significa bellezza e salute, due valori della società contemporanea che sono in continua evoluzione e assumono connotati sociali (che ho già descritto), psicologici e psicanalitici: piacersi è piacere all’altro e aiuta nella relazione normale e amorosa. La componente libidica lavora sotto ai rapporti e li influenza, il corpo è il veicolo di tale lavorio. Lavorare con un collega o una collega piacevole a vedersi allieta il tempo trascorso insieme e quindi anche il risultato. Essere belli è sempre più importante per tutti e a tutti i livelli. Il binomio moda e sport è in funzione di tale mitizzazione del sé esteriore.

giovedì 27 marzo 2008

Vivi secondo natura è un motto sportivo?

Motto stoico sempre saggio. Vale ancora oggi? E soprattutto vale per lo sport? Vivi secondo Natura implica la conoscenza della natura e il proprio adattamento ad essa. Ora per quanto riguarda l’uomo possiamo ricordare che possiede una natura propria e che tale natura interagisce con l’ambiente. Considerando quanto da me già esposto (Filosofia dello sport) ritengo che la natura umana sia un’interazione dialogica fra mente e corpo. E tale interazione dialogica si relazioni poi ulteriormente ad altro e tale altro può essere l’ambiente. Lo sportivo sviluppa spesso una perfetta interazione dialogica con il suo corpo; non altrettanto con l’ambiente perché l’ambiente non è da lui direttamente controllabile. Se tiro un calcio al pallone troppo forte non va in rete; se abbasso troppo il braccio per la schiacciata il pallone mi rimbalza in faccia. Non ho calcolato il rapporto con l’ambiente e ho pensato solo al potenziamento del mio gesto atletico. Mi sono reso conto di essere forte e di aver lavorato bene sul mio muscolo ma non ho calcolato l’impatto ambientale che la mia forza ha e quindi sono giunto lo stesso all’errore. Non basta il dialogo con se stessi per essere un buon atleta e ottenere cosi risultati proficui; bisogna calcolare anche altre variabili e una di queste è la natura esterna. Tutti i fattori ambientali sono fondamentali per la buona riuscita di un gesto sportivo e devono essere considerati. Questo per quanto riguarda il dialogo con l’altro.

Nel dialogo con si stabilisce un equilibrio fra la propria mente e il proprio corpo; l’allenamento ci permette di conoscere il nostro corpo e l’influenza che ha sulla nostra mente. Mentre lo potenziamo ne conosciamo tutte le caratteristiche. Ne conosciamo la sua natura appunto. In questo modo però noi stiamo forzando la nostra natura perché le imponiamo ritmi e pressioni per raggiungere un risultato atletico. Capita che la potenziamo inesorabilmente ed eccessivamente. Il rapporto con la natura è fatto dall’equilibrio che si stabilisce con essa ed è determinato da una gestione del limite; nello sport ciò non avviene perché si tende a superare tale limite e quindi la nostra natura, rompendo l’equilibrio stabilitosi. Ciò porta sicuramente al risultato sportivo ma a lungo andare causa il degenerarsi del rapporto con la natura stessa, il corpo forzato è potenziato in maniera disequilibrata e alla lunga subirà dei tracolli. Strappi muscolari ne sono spesso un segnale. E allora che fare? Impedire agli sportivi di esserlo? Gli sportivi non hanno una vita più sana rispetto agli altri? NON MANTENGONO AL MEGLIO LE PROPRIE CONDIZIONI PSICOFISICHE, NON DIALOGANO IN MANIERA PERFETTA CON IL PROPRIO CORPO? Certo. Però si ritiene che la stagione sportiva possa avere un inizio e una fine e che pur essendo soggettiva vada calcolata e considerata nel rapporto con la natura per gestire al meglio l’equilibrio con il sé una volta ritrovato. Un atleta può durare qualche anno (uso Il termini “qualche” perché dipende dal soggetto e dallo sport che pratica) ai massimi livelli dopo vi sono le cadute. Comprendere questo limite è rispettare la propria natura e adeguarsi ad essa per ritrovare l’equilibrio con se stessi ed essere sereni. La serenità deriva dall’equilibrio e ciò vale sempre anche nello sport. Mantenere un giusto equilibrio e un perfetto dialogo con se è comprendere anche questi limiti frenando la propria attività sportiva ed adeguandola alla propria natura che cambia e si modifica con il passare del tempo.

“Vivi secondo natura” è un motto sportivo se non si pensa di essere nature straordinarie più del dovuto. I talenti non sono eterni e si curano dalla fase crescente alla loro fase calante adeguandovisi.

sabato 1 marzo 2008

L'educazione passa dallo sport

Questo post apparirà su entrambi i miei blog di Google perché credo fermamente nel valore educativo dello sport. Lo sport educa la mente attraverso il corpo. Gli antichi, greci e romani, avevano talmente chiaro il concetto da renderlo parte integrante dell'educazione del fanciullo fin dalla tenera età. Platone, il più astratto dei filosofi, apprezzava lo sport quanto la matematica e nell'educazione del futuro governante non c'era solo la filosofia ma c'era l'attività fisica. Noi contemporanei, dopo anni di vita sedentaria nelle nostre poltrone d'ufficio, riscopriamo il valore dell'attività sportiva e sembra che anche il Governo, oramai decaduto, ne abbia appreso l'importanza permettendo (nella finanziaria è previsto) di detrarre dalle tasse una percentuale per le attività sportive dei propri figli.Cosa insegna lo sport? Insegna la costante educazione alla fatica e al rigore nonché l'allenamento all'esercizio. Valori indispensabili nel quotidiano di ognuno da bambini fino alla vecchiaia. Portare a termine un compito fa parte della vita, continuare anche quando ci si sente sconfitti aiuta a rispondere alle disfatte e a trovare soluzioni. Lo sport come la filosofia allena la mente perché propone alternative alla resa. Non arrendersi nel mondo feroce e individualista che oggi ci troviamo di fronte è una grande risorsa e lo sport la propone come modus operandi costante.

domenica 17 febbraio 2008

egocentrismi sportivi

Lo sportivo è egocentrico?
L'ego di un atleta è più grande?
Viene educato all'egocentrismo?
Domande che mi pongo da un po' di tempo e sulle quali ho riflettuto già altre volte. Devo dire che un atleta lavora moltissimo sull'autostima e sulla sicurezza che gli servono per riuscire nelle prestazioni sportive. Devo anche dire che l'egocentrismo è sicuramente una parte del carattere e quindi è soggettivo. Non tutti gli atleti sono egocentrici ai massimi livelli. Però una piccola componente di egocentrismo più accentuata rispetto a coloro che conducono un'esistenza normale esiste. Esiste perchè serve. Serve per lottare, serve per primeggiare, serve per amarsi e convincersi che in quell'occasione (la gara) si può essere i mgliori. Fin qui nulla di male.
Ma quanto l'egocentrismo lede i rapporti personali? Con l'allenatore e con le persone care?
QUANTO L'ATLETA VEDE Sè E NON VEDE L'ALTRO? O LO VEDE SOLO IN FUNZIONE DI Sè? RIESCE L'ATLETA AD ESSERE OBIETTIVO NELL'ANALISI DEL Sè O NON FALSATO E FILTRATO DAI PROPRI MERITI SPORTIVI? COME A DIRE: SONO FORTE IN CAMPO E QUINDI ANCHE NELLA VITA. ATLETI RISPONDETE, SE POTETE.
il confronto e' molto gradito.

sabato 2 febbraio 2008

bravo!

Non sarò certo l'ultima che lo sostiene. la scuola del calcio come scuola di sport non è in serie A ma nelle categorie inferiori. Sono andata a vedere la partita oggi perchè giocavano persone amiche e ho visto un bel gioco di squadra, affiatato e sereno, soprattutto sereno. Dove la cosa più importante era certo fare goal per vincere ma soprattutto era giocare e dare il meglio di sè per gli altri. Lo sport è aggregazione, lo sport è convinzione, lo sport è realizzazione ma non del mercato, di sè e questi ragazzi, che oggi hanno fatto un regalo alla loro professoressa, hanno giocato per sè. Questo è stato il regalo più bello perchè ho goduto lo spettacolo.

lunedì 28 gennaio 2008

Lo sport è cultura?

Io credo di si. Lo sport educa alla cura di , del corpo e della mente. Permette di conoscere e gli altri, educa alla sfida, al confronto, al giudizio. Lo sport è rigore e disciplina, è linearità etica (stabilire uno scopo e perseguirlo). Lasciamo stare quello che succede nei nostri stadi, la mancanza di rispetto di ciascuno verso tutti. E' inciviltà che atavicamente caratterizza l'uomo e riemerge in momenti di crisi come il nostro e nello sport dove tutti ci si sente più liberi. Ma sarà vero? Non è che perdiamo di vista l'essenza dello sport perché ci concentriamo solo sul calcio? Perché lo riteniamo l'unico sport degno di nota? Cosa è rimasto di sportivo nel calcio? Le regole sulla carta, perché in campo si vede di tutto (spettacolo, insulti, ingiurie, balletti) ma non lo sport. Lo sport è altro, è la misura dell'uomo con se stesso visualizzata nella sfida che la caratterizza. Nel calcio la sfida dell'avversario sembra essere in secondo piano, la cura del come sportivo è seconda alla cura del in quanto vip. L'immagine della squadra atletica è seconda all'immagine della squadra mercato e quindi merce. Lo sport è cultura, il calcio è divenuto bestiale. Ritengo quasi alienante: non si sa più perché si gioca se non per guadagnare denaro e fama per e per la squadra. Il gioco non è questo, lo sport non è questo. Torniamo al tema: la cultura è arricchimento (ma non materiale - spirituale) e il vero sport lo è. Il calcio?

venerdì 4 gennaio 2008

Filosofia dello sport, appendice: la sconfitta

Introduciamo qui una delle appendici che seguono il saggio. Il motivo è che l'argomento è di attualità ed è irrilevante ai fini della comprensione seguire l'indice del testo originario in questo blog. Se volete il libro lo potrete visionare cliccando sul link della barra a lato. E' disponibile per l'acquisto.
Qui ci sentiamo liberi di seguire un ordine empatico.

La sconfitta
Tappa obbligata nel percorso di un atleta, la sconfitta forma. Come ogni esperienza ha il suo valore formativo a patto che la si valuti con il giusto peso e la giusta misura. Nel dialogo io-tu la sconfitta diventa protagonista e diventa il tu. Uno spauracchio da superare e ridurre alla memoria dell’io. Un fantasma che pesa sulla coscienza dell’atleta perché comunque è portatrice di elementi negativi sia per il prestigio sia per la carriera sia per l’auto stima dell’atleta. La sconfitta è come un mostro dalle mille teste e dalle innumerevoli sfumature. Implica differenti riflessioni su di sé, sul rapporto con il proprio io (sia mente sia corpo). Deve essere accettata dall’atleta, interiorizzata come parte del sé per attribuirle il giusto valore e per assumerla come esperienza di crescita e non semplicemente come fallimento. La sconfitta non è solo un fallimento, è un passaggio, è un’occasione per riflettere si di sé: sulle proprie aspettative, sui propri obiettivi e sui propri errori. Il feedback della sconfitta ricade primieramente sul corpo. Il corpo sconfitto si sente sfiancato, debilitato, distrutto, annientato. Il peso del fallimento lo tocca facendo emergere tutta la stanchezza e l’inutilità degli sforzi compiuti. Nel dialogo io- tu non bisogna lasciare alla sconfitta il predominio né lasciare che il corpo prenda il sopravvento sulla mente. Bisogna digerire, fagocitare il momento di sconforto e passare oltre. Il passare oltre implica una grande riflessione su quanto avvenuto. Non si può dimenticare e basta. La sconfitta non sarebbe accettata e di conseguenza non sarebbe interiorizzata nel modo corretto. Bisogna comprendere i motivi che l’ hanno provocata ed accettarli come momento di crescita e di accettazione del sé in quanto fallibile. L’abbiamo già più volte ribadito, l’atleta non è un Dio e pertanto fallisce come ogni essere imperfetto. La sconfitta può essere causata da diversi fattori: la sfortuna, l’assenza di preparazione, un infortunio non previsto, un incidente sul campo, una preparazione inadeguata, uno scarso convincimento delle proprie abilità. Qualsiasi sia il motivo della sconfitta, esso deve essere individuato e accettato dall’io che lo usa come modello negativo, da non ripetere. E’ una riflessione su di sé e sulle proprie abilità che deve essere fatta considerando anche tutte le circostanze che attenuano la colpa. Ma la sconfitta implica un’assunzione di responsabilità e tale assunzione implica una presa di coscienza dell’errore compiuto, perché la sconfitta è conseguenza di errori. Tali errori possono essere in parte indipendenti dall’atleta o dalla squadra e la fortuna sicuramente ha la sua parte. Ma la sconfitta ha una causa o più cause e alcune di esse risalgono all’io e al suo rapporto con sé e con il proprio corpo. La domanda più plausibile che ci si deve porre è: Dove ho mancato, dove non ho sentito il mio corpo? Dove l’ho perso per strada, dove sono caduto nel controllo del corpo da parte della mia mente? Trovando risposte a queste domande la sconfitta assumerà il reale valore per la quale essa guadagna il connotato di esperienza e diventa davvero formante.