domenica 16 dicembre 2007

L'atleta per sé

L’atleta per sé
Considerando il per sé in termini hegeliani, ciò significa che l’atleta per arrivare a definire il per sè e quindi per essere realmente per sé abbisogna di un lavoro su di sé a lungo termine e forse mai finito, indeterminato. “Per sé” significa aver piena coscienza di sé, essere affrancati da ciò che è altro, non perché lo si è semplicemente tenuto fuori ossia negato ma perché lo si è affrontato e riflettuto rispetto a sé, per quel che vale per sé, per come riconosce il sè. Quando parliamo dell'altro generico ci riferiamo a tanti possibili altri che vanno interpretati, digeriti, somatizzati alla luce del sé per comprendere meglio il sé appunto. “Altro” può essere l’allenatore con il quale si interagisce costantemente , “altro” può essere la squadra con la quale si interagisce spesso, altro può essere il pubblico con il quale si interagisce qualche volta. Altro può essere anche se stessi quando si riesce a considerarsi staccati da sè per avere una visione di sé più obiettiva e più corretta al fine di concepire sé nel modo più completo possibile. La conoscenza di sé è un processo a lungo termine che finisce con la fine della vita, la conoscenza di sé come atleta dura per tutta la carriera e influenza anche le scelte di vita future al di là dello sport praticato. Quanti atleti diventano allenatori o dirigenti perché hanno assorbito quel mondo, quel “fuori” che li caratterizza da dentro così tanto che oramai fa parte della propria essenza di persona e su di esso si costruiscono la propria vita godendo per sempre di una passione che ne ha alimentato le esigenze più vivaci. Partendo proprio dall’analisi del sé come “fuori” (qui intendiamo il termine fuori come fisicità) costruiamo la figura dell’atleta. Nel dialogo io-io l’atleta si rapporta a se stesso prima inconsapevolmente, soprattutto da ragazzo è interessato all’aspetto fisico, i muscoli si ingrossano, la potenza aumenta, le prestazioni migliorano grazie a un gesto o a un movimento che riesce all’improvviso, la gioia goduta è il sentimento più forte che absconde la riflessione razionale su se stessi e poi sempre più si prende coscienza di sé perdendo magari anche l’incoscienza che permetteva di osare proprio perché non si era consapevoli del tutto del sè e dell'altro che permette di completare il sè (per es. il pericolo di una determinata prestazione, il rischio in un’impresa che magari se troppo riflettuta non viene attuata perchè la paura prevale). Il rapporto con il sé è il più difficile perché è il più complesso, nessuno conosce mai troppo a fondo se stesso, tale processo è indeterminato e si completa solo con la relazione con l’altro di cui sopra (allenatore, squadra, pubblico). Ognuno di noi ha bisogno di un riconoscimento da parte dell'altro, per rafforzare le proprie convinzioni su se stesso o per demolirle. Che importa? L’importante è che questo dialogo a più facce avvenga per non risultare ambigui nel giudizio su di sé e offuscare un’analisi del sé necessaria a migliorare il proprio rapporto con l’attività sportiva stessa che per molti coincide con la vita. L’uomo sportivo nasce atleta oppure lo diventa in età fanciulla o adolescenziale quando la persona si sta formando, l’attività fisica, lo sport praticato diviene tutt’uno con quel che l’atleta è, l’atleta è atleta e persona insieme; scindere i due elementi per l’atleta è estremamente difficile soprattutto quando si è ai vertici. Se l’atleta si relaziona a se stesso, prima si vede come atleta e poi come uomo e costruisce la maggior parte delle sue relazioni centralizzando il ruolo che ne caratterizza l’essenza a tutto tondo cioè ponendosi molto come atleta e poco come uomo. L’atleta è in simbiosi con la propria attività fisica, l’esperienza che costruisce nello sport viene trasferita anche negli altri settori dove è portato a competere (se prevale il suo individualismo) o a lavorare in squadra, a seconda del proprio carattere, come fa quando è atleta. Scindere le parti della propria essenza per l’atleta è quasi impossibile e a molti non viene nemmeno chiesto da nessuno, nemmeno da se stessi. Nel rapportarsi a sé come persona l’atleta usa i parametri del proprio essere atleta; se l’atleta è un metodico tenderà a dire di essere una persona rigorosa con abitudini ben precise. Se l’atleta è un talentuoso e quindi un istintivo tenderà a dire di agire ed essere “sempre a caso” sovra pensiero. Scindere il proprio essere atleta dalla propria personalità al di là dello sport è una riflessione quasi inutile perché la vita dell’atleta è lo sport stesso. Quando ciò diviene però necessario? Quando la vita cosiddetta normale prende il sopravvento. Per es. a fine carriera e durante episodi nodali: La costruzione di una famiglia, la morte di qualcuno vicino, il trasferimento in un’altra città. Ecco allora l’atleta deve essere in grado abbandonare per un tratto il proprio essere atleta e riflettere sul proprio essere uomo, cercando di leggere il dolore o la felicità per sé come persona e non per sé come atleta. Ossia deve porsi la domanda: è giusto che sia così per me come uomo? Solo allora il processo su di sé potrà dirsi soddisfacente in quanto permetterà all’atleta in futuro di leggere il rapporto con sé con più distacco usando nei giudizi su di sè (per es. la riuscita di una prestazione) la parte di sé che è quella dell’uomo e non solo quella dell’atleta. Il distacco da sé come atleta, il silenzio dell’atleta corrisponde all’urlo dell’uomo, al sé inteso come “Mensch” (direbbero i tedeschi) dove il concetto implica la fisicità e la spiritualità di sé e non solo la propria sportività.

domenica 18 novembre 2007

La vita dell’atleta

La vita dell’atleta
Analisi filosofico-esistenziale della figura dell’atleta
L’atleta è corpo
Introduzione
Quando pensiamo ai nostri atleti la prima cosa che figuriamo è la prestanza fisica, una determinata abilità tecnica, una caratteristica di gioco o di prestazione, un gesto, un verso, una figura. Tutti elementi legati al corpo. Il primo vero e grande interprete del corpo come coscienza di sé nella storia della filosofia è Nietzsche. Egli scrive nello Zarathustra: “Corpo io sono e anima”. E’ inutile, il corpo viene prima, lo si vede, lo si sente, solo dopo se ne ha coscienza. Tutto passa attraverso il corpo: le sensazioni e le riflessioni. L’atleta lavora con il suo corpo, dialoga con il suo corpo, perfeziona il suo corpo. La mente riflette ciò che avviene nel corpo, si mette in relazione con il corpo. Il dialogo io-io è un dialogo della mente con il corpo e del corpo con la mente. Facciamo un esempio: Quando l’atleta è sottosforzo, sente la sofferenza, la fatica, la difficoltà nella resistenza ma chiede al suo corpo di resistere, di farcela e il corpo risponde con lo sforzo regalando alla mente la gratifica di un risultato raggiunto. La sensazione (a livello di corpo) e la riflessione
(a livello di psiche) di avercela fatta. ”Ma il risvegliato sapiente dice corpo sono io sono in tutto e per tutto, e null’altro..”(Nietzsche, Zarathustra). la nascita, la vita e la fine di un’atleta è legata alla sua fisicità. Da bambino si leggono nel corpo le potenzialità, da adulto se ne prende consapevolezza, a carriera finita se ne riconoscono i limiti e la decadenza.
Vi è una presa di coscienza di sé e della propria sportività (intesa come competenza e volontà sportiva) attraverso il corpo. Come? Guardandosi negli avvenimenti sportivi: dall’allenamento, al riposo, alla competizione. Anche la concentrazione, che sembrerebbe un fattore prettamente mentale, implica uno sforzo fisico e un dialogo con il proprio corpo che la mente esorta ad isolare tutto il resto per focalizzare esclusivamente la prestazione da effettuare al fine di ottenere lo scopo: il risultato. Ci si vede concentrati sull’obiettivo e il corpo guidato dalla mente si isola dal “fuori” che diviene un “altro” nullificato e “il sé” diviene il “tutto assoluto”, mente e corpo insieme.
Di seguito verrà analizzata nello specifico la figura dell’atleta considerando:
l’atleta per sé
L’atleta per l’allenatore
L’atleta per la squadra
L’atleta per il pubblico
In queste analisi la relazione mente-corpo e il dialogo io-io e io–tu saranno le categorie trascendentali (nel senso kantiano ossia necessarie e imprescindibili) della comprensione.

lunedì 29 ottobre 2007

I contingenti: la durata e il post

La durata
La durata di una manifestazione sportiva e quindi di una gara, anche se è definita nei tempi da un orario e da un regolamento, non è sempre uguale, non è per tutti uguale e soprattutto non è percepita da tutti nello stesso modo. Una partita di calcio dura 45 minuti + 45 minuti ma dobbiamo considerare i tempi di recupero e le decisioni arbitrali. Una gara di sci nautico (slalom) dura in media pochi minuti ma si puo’ fermare subito o continuare fino a chiudere il percorso. Ma puo’ finire un istante dopo che si è partiti se si prende la boa o se si cade. Una partita di tennis puo’ durare mezz’ora o tre ore, le variabili sono infinite. Il tempo inteso come durata di una prestazione incide sia sulla resa dell’atleta sia sulla bellezza dello spettacolo e quindi sull’apprezzamento di esso da parte del pubblico.
Consideriamo che il fair play diminuisce di molto la sensazione che il tempo sta passando, si è tutti concentrati sul bel gioco, atleti e pubblico, è il tempo diviene solo un elemento di sottofondo. Mentre quando il proprio idolo perde e la squadra va male o la gara finisce in caduta il tempo diviene pesante da sopportare, non si vede l’ora che finisca ed è per tutti così: atleta, allenatore, squadra, pubblico.
Cosa incide nella percezione del tempo?
Le aspettative indubbiamente. Se ci si aspetta che sarà una bella gara ed è così il tempo scorre senza essere notato, rimane in ombra, protagonisti sono l’atleta e il gioco. Se le aspettative vengono disattese il tempo diviene protagonista inevitabile della prestazione negativa e accentua la disillusione e il dolore per la sconfitta. Il tempo viene misurato in base alla sofferenza che si prova mancando un obiettivo da parte dell’atleta, osservato e sofferto anche da parte del pubblico. Il tempo si ingigantisce o si annulla in base all’aspettativa assolta o delusa. Nel dialogo io-io e io–noi, che abbiamo descritto, il tempo incide allargando la percezione di sconfitta perché si ha la sensazione di un dolore prolungato e diminuendo e quasi azzerando se stesso se prevale il senso di gioia dato dalla vittoria. Il tempo si annulla e vale solo l’emozione forte di aver centrato un obiettivo. Nel dialogo io – noi il pubblico parla con l’atleta quel linguaggio muto o sentito di esortazione che descrivevamo prima e l’euforia per la vittoria azzera il tempo, sembra che duri solo un istante come la felicità. Invece quando si percepisce la sofferenza, nel dialogo - che in questo caso è quasi sempre muto perché prevale lo sconforto che fa tacere anche il tifo più animato - il tempo è lunghissimo, percepito inesorabilmente come realtà che non passa e non riduce il peso della disfatta. Anche l’atleta si ammutolisce e percepisce per tutta la lunghezza della prestazione, anche dopo la sua singola esibizione, il dolore del risultato negato che dura infinitamente. Se ne esce forse solo a gara terminata.
Quindi: il tempo dilata le emozioni o le restringe a seconda del risultato e influenza il dialogo enfatizzandolo con l’incitamento sempre più audace se si vince e con l’annullamento di esso se si perde. Altra cosa è la percezione del tempo per l’atleta, Il tempo incide sulla prestazione dell’atleta perché, se si dilata, viene meno la concentrazione, se è troppo breve non ci puo’ essere sufficiente tempo per abituarsi all’idea. Ma questi temi troveranno una spazio più adeguato quando tratteremo dell’atleta come figura in sé.


Il post
Quando si pensa a una prestazione sportiva si è portati a considerare la prestazione in sé. E’ difficile che qualcuno si fermi al dopo, tutti se ne tornano alle loro abitudini più o meno soddisfatti. Chi si sofferma a pensare al post gara sono sicuramente i protagonisti che meditano sulla vittoria o sulla sconfitta. Ho visto molti allenatori che riguardano le prestazioni dei propri atleti o quelle degli avversari per valutare pro e contro, errori e difetti, pregi e virtù, tattiche e modi, modifiche da registrare. Il dopo è il tempo della riflessione sul prima e sul durante ossia su quanto è avvenuto, su ciò che poteva essere modificato su ciò che c’è da migliorare. La tendenza dell’atleta ad andare verso il meglio si vede anche in queste riflessioni post gara. Nel dialogo con sè l’atleta rivive flash delle proprie performances e comincia a dialogare con sè per vedere dove e come puo’ interagire con se stesso per modificare o mantenere ciò che è meglio riuscito magari fortunosamente. Il dialogo io-io assume una connotazione temporale basata sul ricordo e sulla meditazione nel ricordo. Spesso appare sfuocata, appena ottenuto il risultato o appena mancato un obiettivo. In quel momento interferiscono le emozioni: la gioia o la delusione che offuscano le riflessioni razionali. A lungo termine però il ricordo diventa la base su cui dialogare con sé, il materiale di discussione per così dire che nel dilago io-io interagisce e ha come obiettivo il miglioramento di sé al fine di ottenere lo scopo ossia un risultato migliore. Il ricordo non va ignorato. Tanto è vero che ora la tecnologia aiuta a fissare qualcosa che prima era affidato esclusivamente alla memoria. Grazie all’ausilio della tecnologia si può vedere sé come fuori di sé come un altro da sé da giudicare passo, passo per definire in maniera più obiettiva quanto il nostro sé in quella particolare prestazione ci abbia più o meno soddisfatto. Il distacco da sé garantito dalla tecnologia (ci vediamo in un video per es.) è un ottimo strumento di distacco dall’emotività che il dialogo io-io non puo’ impedire. L’annullamento o la diminuzione dell’emotività grazie al tempo passato e alla visione aiutano l’atleta a guardarsi dentro da fuori come un altro sé che giudica senza sconti il proprio sé e lo induce alla modifica. Non è da tutti questo passaggio: i più emotivi ed orgogliosi non lo sanno fare; ma è un traguardo che si è costretti prima o poi a raggiungere pena la mancanza di obiettività nei confronti dei propri limiti e la perdita di coscienza dei propri obiettivi; pena la caduta nel risultato.

mercoledì 10 ottobre 2007

I contingenti: la sfida; il campo

I contingenti:
La sfida
Connotato principe anche se non essenziale dello sport è la sfida. La sfida puo’ essere intesa come sfida contro se stessi e sfida contro l’altro (singolo o squadra). Nella sfida contro sè viene a presentarsi un altro elemento correlato ossia la sfida contro i propri limiti.
Il dialogo io-io che abbiamo citato sopra è alla base della sfida. Sia nello sport individuale che nel gioco di squadra vi è la sfida contro sè. Io posso pensare di migliorare le mie prestazioni sia che esse si manifestano in una squadra oppure in una competizione in cui gareggio da solo.
Quando io dialogo con me stesso, entro in relazione con il mio io manifesto ossia conscio e indirettamente con il mio io nascosto, inconscio. Facciamo un esempio: devo affrontare una gara, per fronteggiare questa gara mi sto allenando, durante l’allenamento dialogo con il mio io e, in questo dialogo affronto le mie capacità e i miei limiti e cerco di conoscerli per migliorare le prime e superare i secondi. Ma a livello latente ci sono le manifestazioni inconsce dell’io: paura, ansia da prestazione, panico pre-gara, insoddisfazione, frustrazione, desiderio di vincere, paura dell’avversario. Il desiderio di vincere e la paura dell’avversario sono anche a livello conscio ma agiscono molto più sottilmente a livello inconscio tradendomi nel momento meno opportuno se non le affronto adeguatamente e non imparo ad accettarle e ciò avviene sempre dialogando con il mio io e controllandone le emozioni. Ora ogni essere umano e quindi anche l’atleta è un ente imperfetto e non ha nessuna pretesa di forgiarsi perfetto in alcunché. La superbia di qualche atleta è proprio data dalla mancanza di consapevolezza di tale difetto. Però nel dialogo con sè in cui il tema dell’imperfezione emerge più o meno chiaramente l’atleta cerca di inquadrare il propri limiti e li vuole superare, sfida se stesso in una lotta con sé e con il limite di sé per accorciare la distanza verso la perfezione. Se miglioro una prestazione ho accorciato tale distanza e sono soddisfatto. Tale risultato mi porta a credere maggiormente in me stesso e a risolvere quelle paure inconsce sopra citate che danneggiano il mio io e il risultato a cui esso tende. Avviene poi la sfida con l’avversario e il dialogo io-io si trasforma in dialogo io-tu. Dialogo con l’avversario che puo’ essere anche solo mentale (la cinematografia ci offre un sacco di esempi di tali dialoghi muti), dopo averlo studiato nei suoi pregi e difetti ossia in quel lavoro che parallelamente a me lui ha fatto con se stesso. La sfida si basa sul confronto di pregi e difetti di entrambi e tende al superamento dell'alto in tali esibizioni di sé. Superando l’atro posso affrontare anche la sfida con me magari battendo l’avversario e stabilendo un record. Raggiungo un risultato (scopo) sia con me sia con l’altro, la sfida è vinta due volte.

Il campo
Si chiama fattore campo e molti sostengono che incida sull’effetto di una prestazione molto spesso in positivo a volte in negativo. Proviamo a capire perché. Il fattore campo è quando l’atleta o la squadra giocano-gareggiano in un determinato luogo che, se è quello abitudinario viene chiamato “casa”, se è quello dell’ospite viene chiamato “trasferta”. Giocare in casa o in trasferta spesso fa la differenza e incide sul risultato. Nel giocare in casa l’atleta allarga il dilago io-io o io-tu a un neutro quid: il campo di gara familiare. Quid perchè non è un soggetto come nel primo caso ma un luogo però un luogo noto quindi studiato con i propri difetti e le proprie qualità che non essendo note all’avversario avvantaggiano l’atleta di casa. Però qualche volta capita che l’effetto campo si riversi come un boomerang sull’atleta autoctono perchè interviene l’ansia da prestazione. Ci si aspetta da lui di più perché appunto gioca in casa e quindi parte avvantaggiato, favorito. Questo aumenta l’adrenalina e l’energia che, se controllata e usata positivamente favorisce la prestazione; se però è troppa e quindi ingestibile la danneggia. Alla carica si aggiunge la paura del fallimento che incide su quanto poi si andrà a realizzare e perciò sul risultato. Nel fattore-campo dobbiamo considerare anche il fattore tifo che ne è una componente fondamentale. Chi gioca in casa ha il tifo dalla sua, nel dialogo di cui parlavamo si aggiunge un “noi” generico, da contorno che però durante la prestazione ha il suo effetto. La sua voce incitatrice sollecita l’adrenalina e le emozioni dell’atleta che viene invogliato a fare di più e meglio per soddisfare, oltre a sé, anche il tifo, cioè coloro che amano l’atleta e si aspettano da lui una prestazione vincente che soddisfi il bisogno di vittoria che essi provano nello stesso tempo immedesimandosi con lui. Anche il tifo come il campo presenta un feedback negativo per l’atleta perché il dialogo muto che il tifoso costruisce con lui gli fa percepire le aspettative del tifoso e la simbiosi che il tifoso ha con lui. L’atleta sente il peso dello scambio emotivo che ha con il tifoso, le aspettative del tifoso divengono le aspettative dell’atleta; l’atleta si sente investito di un ruolo doppio: soddisfare sé e soddisfare chi ha fiducia nelle proprie abilità. E’ come se avesse un doppio io sulle spalle: sé e chi si riconosce in lui.
Il dialogo con il tifo è un dialogo a senso unico fino alla fine della gara, l’atleta percepisce il tifo, neanche ascolta, lo sente come sottofondo, come se fosse una musica che stordisce e incita e accentua il dinamismo volontario dell’azione verso la vittoria. Alla fine l’atleta risponde al tifo e il colloquio diventa un dialogo; l’atleta ringrazia se vince, ignora il tifo se perde o ringrazia comunque se ha fatto una buona gara senza risultato utile. Si instaura un rapporto di fiducia “do ut des” che deve essere curato dall’atleta, il tifoso dà e basta, perché il tifo è come la moglie fedele che, se trascurata, si stanca e cerca un prato più verde. Teniamo conto però che la trascuratezza si basa soprattutto sulla prestazione che è il piatto principe del matrimonio tra atleta e tifo, chi non vince alla lunga viene abbandonato.

martedì 2 ottobre 2007

Introduzione

Filosofia dello sport, filosofia di vita
Breve analisi esistenziale dello sport come filosofia di vita.
Introduzione
Amiamo uno sport, lo seguiamo, ci appassioniamo, crediamo che possa essere uno svago, un divertimento. Questo accade per la maggior parte di coloro che praticano uno sport e lo seguono a livello amatoriale. Ma esiste una categoria di persone che invece trasforma lo sport in una filosofia di vita dedicando la propria esistenza a quella che diviene non più solo un'attività alternativa al quotidiano ma un modus essendi e vivendi. E' a queste persone e anche a chi le ama e le segue come tifoso e appassionato che è dedicato questo saggio.
Per capire quanto possa essere bella e dura la vita di uno sportivo e avere un motivo in piu' per condividere una passione con chi la pratica. Quando guardiamo atleti gareggiare in qualsiasi disciplina sportiva nella quale più o meno eccellono, non ci fermiamo a riflettere su ciò che sta dietro. Godiamo della prestazione e della gioia che prova l'atleta in quel momento, vi è una dimensione di coinvolgimento emotivo che ci purifica gratificandoci anche a livello personale. Viviamo la gioia insieme all'atleta, condividiamo lo sforzo, siamo delusi dall'errore e alla fine contempliamo la vittoria. E' come se le nostre passioni fossero un tutt’uno con le sue e ci permettessero di pulirci dalla tensione provata durante la competizione. Amare uno sport e gli sportivi fa bene, diverte, rilassa, fa provare emozioni che la routine solitamente non offre.
Ma l'atleta cosa prova?
Come vive il suo mondo?
Che valori ha?
Cosa sogna?
Come crede e gestisce lo sport che noi possiamo vivere indirettamente attraverso lui/lei?
E' su questo che si intende lavorare in questa trattazione per comprendere come lo sport possa essere realtà esistenziale ossia possa servire a definire un'esistenza di chi dedica per un periodo o per sempre la propria vita a un sogno.

Le categorie dello sport e dello sportivo
Innanzitutto dobbiamo chiarire cosa intendiamo per categoria: usando la filosofia classica e il suo vocabolario ci riferiamo a categoria dello sport quando vogliamo definirne le caratteristiche essenziali. Lo stesso dovremo fare quando tratteremo dello sportivo inteso come atleta. Non è detto che la definizione dell’uno non si sovrapponga a quella dell’altro. Nello sport vi sono alcune componenti dalle quali non si puo’ prescindere che chiameremo essenziali, significa che esse ci sono in tutti gli sport a prescindere dalle caratteristiche tecniche di ciascuno. Tali connotati sono: Il gioco e il risultato. Lo sport nasce spesso come un gioco, si pratica da bambini perché si gioca a qualcosa e con qualcuno. Per es. si gioca a pallone tirando quattro calci ad un oggetto dalla forma sferica, si corre con questo oggetto, lo si muove, ci si muove con esso e poi magari si incontra qualcuno che vuole giocare con l’oggetto e con te. Allora si crea una relazione a tre: io-te e l’oggetto, a tratti la relazione presenta una maggiore rilevanza: io gioco a pallone perchè in questo modo posso giocare con te e fare amicizia, a tratti la rilevanza viene assunta dal gioco e quindi dall’oggetto: io gioco con te perché in questo modo giochiamo a pallone con scopi diversi: io mi diverto a giocare a pallone, io voglio passare il tempo a giocare a pallone, io voglio vincere e batterti. Sono tutte componenti che segnano il gioco e lo sport. Alcune di queste componenti sono leggermente modificate nello sport individuale: per es. lo scinautico perché il quel caso la relazione io-tu diventa una relazione io-io nel senso che l’atleta che pratica uno sport individuale interagisce solo con se stesso, dialoga con se stesso, impara a conoscere se stesso, i propri pregi, errori e limiti: so fin dove posso arrivare, fino a qui ce la faccio e oltre no, so cosa devo fare per migliorare il rapporto io-io entrando in sintonia con me steso, dialogandoci al fine di migliorare la prestazione e l’autostima. A volte il rapporto io-io diviene un rapporto allargato io-tu-io dove il tu è rappresentato dall’allenatore. Però, mentre nelle due relazioni precedenti l’io- tu (gioco del calcio o di squadra dove il tu diviene il noi) la relazione era alla pari, qui l’allenatore ha un ruolo di consigliere e quindi un ruolo autoritario, la relazione non è alla pari ma è una relazione caratterizzata dall’insegnamento–apprendimento e quindi di sottomissione da parte dell’atleta. Le componenti della socializzazione e del divertimento, seppur presenti e importanti, sono meno evidenti in questa che nell’altra relazione. Maggiormente evidente qui è il ruolo di subalternità dell’atleta rispetto all’allenatore. Tale ruolo non deve essere alterato da nessuno dei due protagonisti pena l’assenza di fiducia da parte di entrambi e la perdita di valore della prestazione.
Arriviamo allora al risultato. Sia che si pratichi uno sport per gioco sia che lo si svolga a livello agonistico il risultato è lo scopo o comunque uno tra i primi scopi della disciplina. Se io gioco per divertirmi il risultato sarà lo stesso divertimento, smetto di divertirmi, smetto di giocare o gareggiare. Il divertimento deve essere mantenuto il più possibile anche se il risultato si sposta dal divertimento fine a se stesso alla resa. Se io mi diverto, rendo sicuramente più facilmente e mi dedico allo sport con passione. La passione è alimentata dal divertimento, il divertimento dalla passione. Essendoci queste due componenti spesso il risultato viene da sè facilmente. Se lo sport ha come unico scopo il risultato e non c’è il divertimento prevarrà la fatica e alla lunga la resa ne risentirà penalizzando lo scopo stesso.

lunedì 1 ottobre 2007

Perchè

sto scrivendo un saggio sulla filosofia dello sport. Affronto il tema dello sport dal punto di vista esistenziale e ontologico leggendolo attraverso l'ottica del dialogo che ha il soggetto con se stesso e con chi gli ruota attorno. Lo pubblico in questo spazio a puntate, perchè pur essendo un saggio completo ogni paraagrafo puo' essere letto disitintamente e offrire comunque spunti di riflessione. Per chi lo desidera è disponibile la versione integrale in formato pdf. Siccome la materia è enorme e c'è ancora molto da dire, il saggio non è concluso e ci sarà spazio per una pubblicazine durevole in questo blog. Grazie a chiunque mostrasse interesse per la disciplina.
Cristina Finazzi