domenica 16 dicembre 2007

L'atleta per sé

L’atleta per sé
Considerando il per sé in termini hegeliani, ciò significa che l’atleta per arrivare a definire il per sè e quindi per essere realmente per sé abbisogna di un lavoro su di sé a lungo termine e forse mai finito, indeterminato. “Per sé” significa aver piena coscienza di sé, essere affrancati da ciò che è altro, non perché lo si è semplicemente tenuto fuori ossia negato ma perché lo si è affrontato e riflettuto rispetto a sé, per quel che vale per sé, per come riconosce il sè. Quando parliamo dell'altro generico ci riferiamo a tanti possibili altri che vanno interpretati, digeriti, somatizzati alla luce del sé per comprendere meglio il sé appunto. “Altro” può essere l’allenatore con il quale si interagisce costantemente , “altro” può essere la squadra con la quale si interagisce spesso, altro può essere il pubblico con il quale si interagisce qualche volta. Altro può essere anche se stessi quando si riesce a considerarsi staccati da sè per avere una visione di sé più obiettiva e più corretta al fine di concepire sé nel modo più completo possibile. La conoscenza di sé è un processo a lungo termine che finisce con la fine della vita, la conoscenza di sé come atleta dura per tutta la carriera e influenza anche le scelte di vita future al di là dello sport praticato. Quanti atleti diventano allenatori o dirigenti perché hanno assorbito quel mondo, quel “fuori” che li caratterizza da dentro così tanto che oramai fa parte della propria essenza di persona e su di esso si costruiscono la propria vita godendo per sempre di una passione che ne ha alimentato le esigenze più vivaci. Partendo proprio dall’analisi del sé come “fuori” (qui intendiamo il termine fuori come fisicità) costruiamo la figura dell’atleta. Nel dialogo io-io l’atleta si rapporta a se stesso prima inconsapevolmente, soprattutto da ragazzo è interessato all’aspetto fisico, i muscoli si ingrossano, la potenza aumenta, le prestazioni migliorano grazie a un gesto o a un movimento che riesce all’improvviso, la gioia goduta è il sentimento più forte che absconde la riflessione razionale su se stessi e poi sempre più si prende coscienza di sé perdendo magari anche l’incoscienza che permetteva di osare proprio perché non si era consapevoli del tutto del sè e dell'altro che permette di completare il sè (per es. il pericolo di una determinata prestazione, il rischio in un’impresa che magari se troppo riflettuta non viene attuata perchè la paura prevale). Il rapporto con il sé è il più difficile perché è il più complesso, nessuno conosce mai troppo a fondo se stesso, tale processo è indeterminato e si completa solo con la relazione con l’altro di cui sopra (allenatore, squadra, pubblico). Ognuno di noi ha bisogno di un riconoscimento da parte dell'altro, per rafforzare le proprie convinzioni su se stesso o per demolirle. Che importa? L’importante è che questo dialogo a più facce avvenga per non risultare ambigui nel giudizio su di sé e offuscare un’analisi del sé necessaria a migliorare il proprio rapporto con l’attività sportiva stessa che per molti coincide con la vita. L’uomo sportivo nasce atleta oppure lo diventa in età fanciulla o adolescenziale quando la persona si sta formando, l’attività fisica, lo sport praticato diviene tutt’uno con quel che l’atleta è, l’atleta è atleta e persona insieme; scindere i due elementi per l’atleta è estremamente difficile soprattutto quando si è ai vertici. Se l’atleta si relaziona a se stesso, prima si vede come atleta e poi come uomo e costruisce la maggior parte delle sue relazioni centralizzando il ruolo che ne caratterizza l’essenza a tutto tondo cioè ponendosi molto come atleta e poco come uomo. L’atleta è in simbiosi con la propria attività fisica, l’esperienza che costruisce nello sport viene trasferita anche negli altri settori dove è portato a competere (se prevale il suo individualismo) o a lavorare in squadra, a seconda del proprio carattere, come fa quando è atleta. Scindere le parti della propria essenza per l’atleta è quasi impossibile e a molti non viene nemmeno chiesto da nessuno, nemmeno da se stessi. Nel rapportarsi a sé come persona l’atleta usa i parametri del proprio essere atleta; se l’atleta è un metodico tenderà a dire di essere una persona rigorosa con abitudini ben precise. Se l’atleta è un talentuoso e quindi un istintivo tenderà a dire di agire ed essere “sempre a caso” sovra pensiero. Scindere il proprio essere atleta dalla propria personalità al di là dello sport è una riflessione quasi inutile perché la vita dell’atleta è lo sport stesso. Quando ciò diviene però necessario? Quando la vita cosiddetta normale prende il sopravvento. Per es. a fine carriera e durante episodi nodali: La costruzione di una famiglia, la morte di qualcuno vicino, il trasferimento in un’altra città. Ecco allora l’atleta deve essere in grado abbandonare per un tratto il proprio essere atleta e riflettere sul proprio essere uomo, cercando di leggere il dolore o la felicità per sé come persona e non per sé come atleta. Ossia deve porsi la domanda: è giusto che sia così per me come uomo? Solo allora il processo su di sé potrà dirsi soddisfacente in quanto permetterà all’atleta in futuro di leggere il rapporto con sé con più distacco usando nei giudizi su di sè (per es. la riuscita di una prestazione) la parte di sé che è quella dell’uomo e non solo quella dell’atleta. Il distacco da sé come atleta, il silenzio dell’atleta corrisponde all’urlo dell’uomo, al sé inteso come “Mensch” (direbbero i tedeschi) dove il concetto implica la fisicità e la spiritualità di sé e non solo la propria sportività.